Dal 10 al 30 settembre 2021 presso il Palazzo delle Arti Napoli (PAN) si svolgerà Ceci n’est pas un blasphème, il Festival delle Arti per la libertà d’espressione. Il Festival è organizzato dallo staff creativo della pagina pastafariana Dioscotto e curato e diretto da Emanuela Marmo.

Abbiamo incontrato la curatrice e direttrice dell’evento per rivolgerle alcune domande.

Come è nata l’idea del Festival e come si inserisce nel tuo percorso di cultrice della satira?

Emanuela Marmo, curatrice e direttrice di Ceci n’est pas un blasphème, il Festival delle Arti per la libertà d’espressione

A questo Festival sono arrivata da una strada lunga anni. Mi sono laureata con una tesi sulla satira politica della rivista inglese Private Eye. Confrontando quella esperienza con quella italiana, intervistai alcuni autori tra cui Bucchi, Vincino, Daniele Luttazzi. Iniziai così a organizzare eventi culturali dedicati alla satira. Più artisti satirici conoscevo, più scoprivo che la libertà d’espressione non è scontata. Iniziavano a sommarsi innumerevoli aneddoti che narravano di frasi, parole, disegni erano stati rimossi o modificati per richiesta di qualcuno.

Ho focalizzato una caratteristica della satira che non è tanto di far ridere, bensì di colpire, di ferire, ridendo: l’autore satirico va alla ricerca di ciò che offende perché è in questo punto, è esattamente nell’andare a segno, che emerge ciò che vuole vedere o denunciare. Che senso ha allora esigere dalla satira che non offenda?

Non ho potuto fare a meno di notare che i contenuti religiosi erano sempre quelli più problematici. Mi incuriosiva e al tempo stesso mi indignava che in nome della fede fosse impedita la circolazione delle idee. Idee, per altro, che hanno il loro senso in quanto situate in un contesto: un conto è l’offesa gratuita in un luogo qualsiasi, un conto sono lo spazio della vignetta, all’interno del giornale, la messa in scena in uno spettacolo, una canzone, all’interno di un repertorio. La situazione artistica, i luoghi dell’arte e i mezzi dell’arte sono un perimetro che non trovo giusto violare con la censura.

Diventando consapevole degli impedimenti, su pregiudizio morale, che le religioni esercitano in svariati campi della vita, ad esempio la libertà di scelta in campo sessuale o sul trattamento del fine vita, mi sono interessata all’attivismo satirico: è efficace l’uso della parodia come forma di affermazione pubblica del dissenso? Così, alcuni anni fa, esattamente nel 2014, in occasione di una rassegna che si intitolava Satira a piccole dosi (a Salerno), dedicai uno degli incontri previsti al rapporto tra satira politica e religione. All’epoca il Pastafarianesimo, religione che rende culto al Prodigioso Spaghetto Volante, mi sembrava un movimento situazionista molto interessante. Contattai i fondatori della Chiesa Pastafariana Italiana, ma poi fu una illuminazione. Non era un gioco. Arte, attivismo, satira e religione si fondevano e iniziò per me una straordinaria avventura, un vero e proprio arrembaggio al simbolico, a dispetto del convenzionale. Sono stata eletta Pappessa per tre volte di seguito. Ho esercitato però solo i primi due mandati. Adesso è da semplice piratessa pastafariana che sto organizzando questo Festival.

Ceci n’est pas un blapshème, titolo della nostra manifestazione, è un’espressione ambivalente. Innanzitutto ci costringe a riflettere sul senso della raffigurazione. La rappresentazione della pipa, insegna Magritte, non è una pipa. Dunque tra la rappresentazione e la realtà, tra il segno e il significato c’è un collegamento arbitrario, artificiale e intenzionale. Tuttavia la domanda è… se esistono il sacro e il laico, se esiste una separazione tra queste due dimensioni, perché l’artista non può reinterpretare i simboli sacri fuori il dominio del sacro, ma il sacro può invadere lo spazio pubblico con i propri segni di devozione? Sono queste le domande che ci poniamo, mentre evidenziamo che l’arte anticlericale ha una dignità artistica, una qualità estetica, espressiva, assolutamente comparabile a quella che anticlericale non è.

Napoli, la satira e la censura: una storia che affonda le sue radici nella storia. Ti va di fare una riflessione insieme?

Maschera di Pulcinella
Pulcinella, innanzitutto, è una maschera e l’utilizzo della maschera va molto oltre la dimensione del carattere e della caricatura. La maschera è la scomparsa del soggetto entro una precisa rappresentazione.” (foto: PIRO4D da Pixabay)

Napoli utilizza il comico come fattore di teatralizzazione ed elaborazione della difficoltà. Il disagio, grazie al comico, diventa un oggetto di indagine culturale e di condivisione sociale. Il comico serva anche a sottrarsi agli effetti delle ingiustizie o del dolore. Ma comicità e satira non sono la stessa cosa. In un certo senso l’icona della città detiene il grande merito di custodirli entrambi. Pulcinella, innanzitutto, è una maschera e l’utilizzo della maschera va molto oltre la dimensione del carattere e della caricatura. La maschera è la scomparsa del soggetto entro una precisa rappresentazione. Pulcinella, alla maniera originaria del satiro (che era metà uomo e metà capra e, in quanto tale, aveva facoltà di allontanare le divinità malevole), è una figura fatta di doppi: è servo ma si prende gioco dei signori, svelando le miserie dei potenti; è uomo ma anche femminile; è un diavolo ma anche buono…

Sotto l’ispirazione di Pulcinella, Napoli ha maturato una grande tradizione comica, ma sembra non essere consapevole di avere avuto un’indole satirica che è stata all’avanguardia. Preceduto solo dal Caffè Pedrocchi, che però non conteneva disegni, ad esempio il primo vero giornale satirico italiano fu L’Arlecchino di Napoli, fondato nel 1848. Il periodico subì ben presto la devastazione della redazione nonché la chiusura della testata. L’Arlecchino nasce in una città che non era ancora stata assassinata e che era stata epicentro di un certo sviluppo. Si può dire anzi che era una città da primati: 1735, prima cattedra di astronomia d’Italia; 1754, prima cattedra di economia politica al mondo; 1782, primo intervento di profilassi anti-tubercolare in Italia; 1792, primo Atlante marittimo del mondo; 1801, primo museo mineralogico del mondo; 1818, prima nave a vapore del Mediterraneo; 1839, primo tratto ferroviario in Italia e primo sistema di illuminazione pubblica a gas in Italia.

Il primo vero giornale satirico italiano fu L’Arlecchino di Napoli, fondato nel 1848. Il periodico subì ben presto la devastazione della redazione nonché la chiusura della testata.”

Senza dubbio la Napoli che vede nascere la prima esperienza di giornalismo satirico dimostra che la libera circolazione delle idee è la vera ricchezza di una comunità. Il tema della libertà a Napoli è sempre a cuore di artisti e organizzazioni. Un esempio che posso citare è Imbavagliati, il festival internazionale di giornalismo civile, ideato e diretto da Désirée Klain, che dà voce a giornalisti censurati o perseguitati e che ha avuto occasione di raccontare anche del giornalismo satirico.

Tuttavia, è bene precisare che Ceci n’est pas un blasphème non accoglie solo opere satiriche. Abel Azcona, Antonio Mocciola, Alessandro Gioia, Helena Velena non sono autori satirici. Sono performer, autori, attori, musicisti che producono, fotografano o interpretano contenuti che in genere o in questa precisa occasione hanno voglia di sfidare le convenzioni della tradizione religiosa, perché personalmente ne hanno patito il potere e le limitazioni o semplicemente perché sostengono i valori della laicità. Una sezione del festival è di tipo documentario e racconterà al pubblico casi – giudiziari, mediatici, letterari… – che tratteggiano un fenomeno globale.

Io organizzo questo Festival perché sono molto preoccupata. Il confronto con le idee religiose dovrebbe rientrare nel dialogo tra idee. Le idee possono essere divergenti e quindi anche in conflitto. Negare la possibilità del conflitto, in sede di dibattito, significa avviare non una politica di rispetto, ma di repressione. Non si parla più di idee religiose, ma di “sentimento religioso” e, di fronte al sentimento, le idee anticlericali devono esercitare un controllo continuo sulle proprie modalità espressive, che di solito sono al centro delle polemiche, ma io credo che il ragionamento sulle “modalità espressive” spesso si fonda su una lettura sensazionalistica e per nulla critica, banali pretesti per silenziare i contenuti.

Però… Se il sentimento religioso diventa così condizionante, è facile immaginare che è l’arma perfetta per zittire e per costruire consenso. Chi usa la religione per imporre obbedienza e chi difende la religione per affermarsi e vedere giustificate azioni di altra natura sono gli interlocutori finali del nostro attivismo che, oggi, mi incoraggia ad utilizzare l’espressione “fascismi religiosi” per disegnare in maniera molto più realistica ciò che può succedere e ciò a cui dobbiamo resistere.