Ci sono tanti modi per suggellare un amore. L’eternità di un Si (“lo voglio“) può avere mille declinazioni. È questo il caso della storia di Anna e Claire, amiche-amanti e complici della piece teatrale “Boston Marriage“, andata in scena al Teatro Massimo di Cagliari dal 29 marzo al 2 aprile (produzione CTB Centro Teatrale Bresciano e Teatro Biondo Stabile di Palermo), firmata David Mamet (con la meravigliosa traduzione di Masolino D’Amico che rende espressioni e modi di dire con lucida e tagliente ironia).

Il già due volte candidato agli Oscar Mamet, (Il verdetto, 1983, Sesso & Potere, 1998), nonché Premio Pulitzer per l’opera teatrale Glengarry Glen Ross (1984), mette sulla scena un amore saffico – e poco convenzionale – in una Boston di fine ottocento. L’opera prende il titolo proprio dall’espressione “matrimonio bostoniano“, usata tra XIX e XX secolo per riferirsi a una relazione (sentimentale o semplicemente domestica) tra due donne, senza la presenza economica e sociale di un uomo.

Anna e Claire, due Gilmore Girls logocentrice e logorroiche (difficile non pensare, leggendo la sceneggiatura, a una versione colta delle creature di Amy Sherman-Palladino ndr), interpretate con argento vivo da Maria Paiato (Premio Flaiano 2001 per La strana coppia di Neil Simon) e Mariangela Granelli, affrontano alterne vicende economiche e sentimentali, affiancate (e valorizzate) da una esilarante “cameriera secca”, vero e proprio elemento comico di stampo shakespeariano, interpretata da Ludovica D’Auria.

La Paiato interpreta non solo il testo, ma anche i costumi di Gianluca Sbicca, con ampi gesti delle braccia, cenni di cinema muto, pause e lunghe vocali che suonano come un omaggio a Rosalind Russell.

Doppi sensi e giri di parole in salsa classista e sessuale, legano la svagata e strabordante proprietaria di casa, la più giovane amante, invaghita di un’altra fantomatica ragazza, e la cameriera di origini scozzesi alla quale, con ondate di elegante disprezzo, vengono attribuiti difetti e caratteristiche comunemente facenti parte del bagaglio razziale secondo i luoghi comuni dell’High Society (arretratezza sociale, culturale e persino religiosa).

L’amore tradito, la differenza d’età, la necessità di indossare maschere sociali gradite al patriarcato imperante e una collana che, fintamente perduta, sancisce la volontà delle protagoniste di giurarsi amore eterno in una fuga del tutto priva di necessità. Sono questi gli elementi di un lavoro che mostra le facciate scandalose di una società conformista – in un viaggio di specchi fra Tennessee Williams e Oscar Wilde – che costringe l’essere umano a navigare in quello che D’amico, più volte nel testo, definisce “merdaio“.

La scena (Alberto Nonnato) è una scatola in cui la regia di Giorgio Sangati gestisce in piena simbiosi con il testo, a dir poco perfetto, la maestria di tre eccezionali e “mistiche” protagoniste (in senso del tutto Campy). Una scena che ricorda Auntie Mame di Patrick Dennis, il pop dei Jefferson (la Florence di Marla Gibbs echeggia negli sfoghi di Catherine che, a ben vedere, non capisce “un cazzo” di ciò che dice la sua padrona) e la parte più nascosta e gay di Anna Karenina che, per una volta, non decide di seguire la via del suicidio, ma quella dell’ironia e dell’amore. L’unico modo, a guardar bene, di vivere il dramma umano che guarda da vicino le comari del Bardo.