La vita sessuale dei nostri antenati spicca di bianco e d’azzurro sul tavolo al centro della libreria. Il titolo è provocante e quella bella ragazza, che spunta dal tettuccio di una vecchia automobile, dona un tocco anni Settanta e suggerisce una bella esperienza. Così me lo sono portato a casa.

Ho iniziato a sfogliarlo, quando le parole hanno fatto capolino dalle pagine mi hanno trascinato lentamente in quel dormitorio di Cambridge, dove la narrazione ha il suo inizio.

Capitolo dopo capitolo mi sono ritrovata ad ascoltare Bianca Pitzorno con l’ammirazione e il silenzio colmo di gratitudine di chi riceve in dono una storia bella. Ogni minuto del mio tempo libero l’ho passato china su quelle centinaia di pagine, a tratti immaginando la voce dell’autrice, quasi nella penombra di quei pomeriggi stesse iniziando il mio apprendistato letterario.

Bianca Pitzorno, La vita sessuale dei nostri antenati.

Bianca Pitzorno, La vita sessuale dei nostri antenati.

C’è tanta letteratura, storia. Un’overdose di miti greci, comparazioni letterarie, una nebbia leggera che confonde i colori e i contorni delle cose vere da quelli della mera immaginazione, dalla preoccupante verosimiglianza di un’allucinazione.

L’andamento del libro è un allegretto ma non troppo che sale in un crescendo. Un climax narrativo dato dall’ammassarsi di misteri e segreti di una famiglia intrappolata nei suoi cognomi, nelle pareti massicce della propria casa, nelle odorose pellicce e nell’oro delle signore di provincia che passeggiano verso la chiesa. Invidie di una nobiltà assopita nei confronti del brioso avvenire dei nuovi arricchiti.

I personaggi sono tridimensionali, fai in tempo a conoscerli e a giudicarli. Verso le ultime pagine ti affezioni, tifi per loro, li odi. Speri che la foresta di segreti, abbandono e bigottismo, in cui la protagonista si trova a vivere da tutta la vita, bruci di una ritrovata autenticità. Ma tutte le speranze alla fine vengono disattese. Ad un certo punto, quando inizi a temerlo per via delle poche pagine rimaste fra pollice e indice, ecco che spunta lui: la fine di quel primo attraente periodo.

Ed ecco che nel labirinto narrativo, una volta giunti al termine, tutte le porte aperte sbattono rumorosamente all’impetuosa tempesta della parola fine.

I personaggi più importanti ed enigmatici vengono sviscerati da vivi senza dargli mai una degna sepoltura. Non c’è un perché, un fine vero alle tante, belle ma estenuanti, descrizioni della Pitzorno.

E lì non può non sentirsi tradito un lettore che percorre quasi cinquecento pagine di storia alla ricerca del tesoro, della verità celata, dell’antidoto ai piccoli velenosi morsi inflitti da una storia che si scopre essere mutilata.

Il giorno dopo ho scoperto che l’autrice, nella sezione aggiornamenti del menù del suo sito personale, ha aggiunto un ultimo capitolo. La Pitzorno scomoda l’ormai pensionato Perry Mason e gli chiede quasi sbuffando, di spalle, di spiegare al posto suo, a tutti quei lettori disattenti, qual è la verità. Gli chiede in pratica di tornare indietro a chiudere tutte le porte, una per una. Diciamolo, il lettore, anche se si sente un po’ preso in giro, non può fare a meno di leggere e concludere con un senso di forte disamore.

Jan Verhas, A nascondino (Public domain)

Jan Verhas, A nascondino (Public domain)

Sono state probabilmente molte le proteste dei lettori per indurre la Pitzorno a buttare giù quell’ultimo necessario capitoletto, scritto non senza gli occhi al cielo? La domanda è retorica, parrebbe di si, poiché ad un certo tratto la scrittrice afferma come spesso proprio chi deve capire è l’ultimo a riuscirci, perfino il lettore.

Orribili. Sono orribili i romanzi in cui non si fa altro che parlare e spiegare e specificare le ovvietà. La fiducia nel lettore viene meno e anche la fiducia nelle capacità dello scrittore fanno la stessa fine.

Ma altrettanto poco realistico è sperare che l’interlocutore riesca ad entrare nel regno proibito delle intenzioni dell’autore. Non si fa il processo alle intenzioni, così come non se ne fa lode.

Mi sono sentita un po’ confusa. Sin dall’inizio ho apprezzato la bravura di questa affermata scrittrice sarda con la riverenza dell’allieva che incontra un maestro, e ho assorbito nozioni, stili e personaggi che porterò nel mio bagaglio letterario. Ma la conclusione del libro, e la successiva aggiunta sul sito web della scrittrice, mi hanno fatto sentire in un primo momento come se fossi stata io quel tanto stigmatizzato poco attento lettore, scarso nel comprendere i meccanismi letterari scelti dalla scrittrice, gli espedienti e le soluzioni inanellate agli avvenimenti. Come Arianna che perde il filo nel labirinto.

Forse è stata proprio la tanta, troppa farcia al sapore di cultura a fare da rumore all’andamento logico e cronologico della storia, chi può dirlo.

Fatto sta che tutta questa storia mi ricorda certi amici che erano degli assi a nascondino. Bravi, per carità, ma si nascondevano così bene che non li trovava più nessuno e, quando venivano fuori, il gioco era già bello che finito e i bambini del quartiere erano già tutti a casa, con le mani pulite, seduti per cena.

By Nicol Zacco


Immagine di copertina: Albert Anker, Una ragazza scrive una lettera, 1903 (Free Domain)