L’itinerario letterario di Maria Giovanna Bertoldi Portinari, scrittrice, già Dirigente di Liceo ad Arzignano, trentina di origine, lonigense di adozione, è partito dall’entourage familiare e poi è sconfinato oltre il tempo e oltre l’oceano.

L’autrice è passata dalla scrittura per motivi professionali, alla scrittura come strumento per abitare gli ambienti sociali. Quasi avvertisse il compito di cercare i segni di tempi passati per ancorare i fatti del presente ad elementi tramandati nelle comunità così da riconnettere generazioni attuali e mondi trascorsi. Il filo delle riflessioni personali non si spezza nel mentre il racconto si alza a intessere una memoria collettiva.

La scrittura di Maria Giovanna Bertoldi Portinari si muove a spirale: le prime opere sono caratterizzate da un centro narrativo e cioè da una storia ancorata alla realtà naturale e sociale di un luogo, campagna o terra di mare che sia; poi l’autrice si sposta verso l’approfondimento descrittivo di singoli aspetti o persone, per sottolineare l’importanza de minimis. Quindi si sposta ulteriormente in sede storica e scientifica esplorando la società e gli usi del secondo Ottocento. L’accuratezza dello studio delle fonti non trascura il vissuto popolare, né i fondamenti del sapere, delle tecnologie e dei progressi scientifici. L’intero sviluppo di questa spirale si mantiene fedele ad alcuni elementi: lo stile narrativo che si avvale di una prosa poetica, anche negli approfondimenti scientifici, lambiti da rimandi letterari; l’uso di una lente che descrive il reale partendo dagli umili e dalla rete di relazione da loro intessuta in ogni luogo o epoca, e l’attenzione all’ambiente naturale e il rispetto dei diritti dei viventi.

Fatta questa premessa, ascoltiamo la sua voce.

Qual è stato il punto di esordio sui sentieri narrativi? Quale la molla che ha condotto alla pubblicazione del romanzo “Lucciole nel bicchiere.” (2004, editrice La Serenissima). Com’ è nata la scelta di raccontare, tra osservazione realistica e lirismo poetico, i vissuti di un’intera comunità nel faticoso percorso di trasformazione – di usi, costumi, mentalità – nel corso del Novecento?

La scrittura è sempre connessa al bisogno di fare memoria, di ingabbiare tutto quello che vuoi ricordare o che ti viene raccontato per rendere presente il passato e poterlo rivivere e valutare con gli occhi attuali. È un po’ come usare la tecnica cinematografica del time-lapse che permette di documentare fenomeni come lo sbocciare di un fiore la cui evoluzione nel tempo è poco percettibile dall’occhio umano. Con l’aiuto delle memorie naturali, di pietra e di carta è possibile esplorare ambienti e secoli con la tensione emotiva di un viaggiatore e ampliare i percorsi in ambiti di volta in volta diversi.

Ecco allora l’avvio con Lucciole nel bicchiere per raccontare la campagna veneta negli anni intorno alla seconda guerra mondiale prima del tramonto della agricoltura di fattoria: la faticosa quotidianità dei campi, affrontata con distacco e quasi con serenità anche in tempo di guerra; la terra madre e la libertà delle corse a piedi nudi tra le zolle. Un altro filone narrativo che si interseca è l’evoluzione dei protagonisti fino a diventare eroi di una Resistenza minore, vissuta con passione.

Gli altri romanzi: “Piano et forte”, “L’ardore del mare. A Sirolo”, “Rossi come le ciliegie”, “Con la nebbia e con il sole”: frutto della scoperta del piacere di scrivere?

Piano et forte è nato invece dal contatto con un costruttore artigianale di pianoforti, Luigi Borgato, il moderno creatore del doppio pianoforte a coda con pedaliera, un prototipo che attualizza l’antico clavicembalo con pedaliera suonato, pare, anche da Mozart. La visita al laboratorio e le letture specifiche hanno ispirato un piccolo racconto di formazione basato su un principio basilare: artista è colui che sa uscire di linea in un’arte qualunque. Il sogno di costruire un nuovo strumento più potente dei soliti accompagna il percorso artigianale del protagonista, vissuto negli anni Trenta del XX secolo, ma non giunge a compimento. E il fuoco vitale che sostiene il giovane è la musica… del legno, degli uccelli e dei pianoforti, musica che interpreta il fragile equilibrio tra il suo essere ed esistere, tra anima e materia.

L’ardore del mare a Sirolo è un racconto sui giovani ambientato in un clima marino, reso più caldo dalla cordialità dei pescatori marchigiani: una vacanza è diventata un viaggio nelle tradizioni di ospitalità delle Marche, testimoniate anche nel passato come risulta dal diario di una signora inglese vissuta in quell’ambiente nell’ultimo trentennio del 1800. Il protagonista principale è però il mare, il mare di Hegel che non si lascia stringere da nessun abbraccio, ma anche “il mare in ardore” dei pescatori di Sirolo, che non permette loro di pescare in certe notti estive senza luna. Rossi come le ciliegie è ancora una ricostruzione legata agli anni 50 di una contrada proletaria e comunista per definizione più che per le azioni. A questo testo fa da contrappunto Con la nebbia e con il sole, una ricostruzione storica degli anni 1946-1952 a Lonigo, supportata da articoli dei quotidiani locali che hanno permesso di descrivere, come indica il sottotitolo, “Lonigo a sprazzi e qualche sprazzo di mondo”. Perché prevale lo studio della microstoria? Perché è meno velleitario il cercare di ricostruire un territorio ristretto e in anni di cui si può trovare ancora qualche testimone orale, come di fatto è accaduto. Lo sguardo non è però guidato da un accanimento cronachistico, ma coglie i collegamenti con temi e problemi di più ampio respiro, tipici o perlomeno comparabili con quelli di altri territori dalle caratteristiche simili.

Scrivere è come viaggiare?

Il piacere di scrivere è il piacere di viaggiare nel tempo e nello spazio, però non è per me un dono gratuito, è accompagnato da studio, da assillo delle molte revisioni, da ansia di correttezza documentaria e quindi sarebbe più giusto definirlo “appagamento impegnativo”, anche se la penna scorre agevolmente. Scrivere è inoltre una fuga per esorcizzare l’ansia per la terra che muore, il profondo disagio dovuto a ingiustizie, orrori e schiavitù che con le mie forze non posso cambiare. E lasciandomi andare a un po’ di sentimentalismo posso dire che dalla stanza tutta per me, auspicata da Virginia Woolf per tutte le donne, guardo le nuvole bianche libere di vagare in tutte le direzioni, senza una meta, perfette nel loro essere nel preciso momento in cui le osservo. Le seguo e mi libero dai pesi del mondo.

La funzione catartica della mia espressione letteraria non è però dissociata dalla consapevolezza del valore intrinseco in particolare di un saggio narrato, come io definisco le mie ricerche abbastanza libere dai ceppi burocratici della saggistica canonica, infarcita di riferimenti e di ibidem… ibidem che rendono difficile la lettura da parte di persone esterne agli ambienti universitari. La situazione sociale odierna affonda le radici nel passato che occorre far conoscere non solo attraverso teorie, ma anche per mezzo di esperienze dirette di chi ci ha preceduto e si è confrontato con problemi tuttora presenti anche se in vesti più tecnologiche e globalizzate: il mio occhio, pur cercando di essere obiettivo, tende a privilegiare la sorte dei poveri e dei deboli.

Due parole sul dialogo tematico tra parola scritta e illustrazioni pittoriche. La collaborazione con Vico Calabrò.

La collaborazione con Vico Calabrò, artista di fama internazionale, risale agli anni ’80 quando ci fu presentato dal prof. Enzo Dematté, un suo grande estimatore, che lo definiva “pittore di realtà e di metafore, iconografo, maestro frescante: un uomo del rinascimento che incrocia con fede antica il sentiero dell’arte presente”. Di lui scriveva, fra il resto, nella presentazione di un catalogo dell’artista: “A tanti fuochi si avviva la genialità artistica di Vico Calabrò, fornendo tutte le credenziali di un carattere immaginoso che fonde i dati dell’osservazione realistica con quelli dell’analisi critica, e lo scrupolo documentario con la suggestione del sogno.”

Dopo quell’incontro il maestro produsse, fra le tante opere, una serie di stampe per illustrare Lonigo e la sua storia; in seguito accompagnò le mie narrazioni lasciandomi attingere a piene mani dalla sua vastissima raccolta di quadri per scegliere le copertine. È sempre stato facile trovare una sintonia fra immagini simboliche dal segno stilizzato e la forte carica emotiva legata al gioco dei colori. Allo stesso modo è molto facile dialogare con Vico, sempre pronto a riflettere su molti temi e anche a realizzare disegni su misura delle parole. Questo perché è prima di tutto ricco di una umanità partecipe e attenta, sa ascoltare e accettare anche punti di vista diversi dai suoi.

Vico Calabrò è un artista che definirei “lieve”, aggettivo riferito al suo rapporto carico di leggerezza con la realtà che trasferisce sulla carta e sui muri con una immaginazione inesauribile. Tranquillità, sogno, fine osservazione del reale, trasfigurazione della storia per renderla più leggibile sono alcune delle caratteristiche dei suoi lavori che dialogano, all’occasione, con le “mie parole” rendendole a loro volta lievi.

Le pubblicazioni successive. I Librini: da un racconto ad ampio spazio cronologico, all’attenzione concentrata su specifici drammi del quotidiano, in cui compaiono i protagonisti umili, minuti. Come è nato il piccolo libro “Inseguendo Comu”?

La frequentazione di un luogo giovanile come un liceo, pur se nella veste di dirigente scolastica, e le amicizie dei figli hanno favorito una discreta conoscenza delle dinamiche postadolescenziali. L’occasione per dialogare sulla carta con i pensieri di un ragazzo è stata la tragica morte di Gabriele Castiglion, un diciannovenne dai profondi pensieri sempre appesi alla leggerezza dell’essere, all’autoironia, all’importanza di ridere e di essere felici. Non si potevano lasciare in un cassetto i suoi scritti solo come rovello doloroso per i genitori: con il loro permesso sono diventati patrimonio di tutti, accompagnati da una contestualizzazione e da un quadro del mondo giovanile. Il librino Inseguendo Comu ha girato nelle scuole venete e in altri ambienti da Roma alla Sicilia. Un suo appunto scritto di getto può dare un’idea di chi era: “È quasi frustrante come tutta la nostra vita si giochi nell’attimo prima di morire; in quel momento cosa conta? Se siamo felici o no: Per questo è meglio essere sempre felici: se mi capitasse di morire quando non me lo aspetto, sarei felice. Se me lo aspettassi cercherei di esserlo ancora di più…” Ed è capitato così, un incidente imprevisto.

Copertina del magazine Eudonna (Casa Editrice Il Sextante, marzo 2022), che dedica a Maria Giovanna Bertoldi Portinari un lungo approfondimento.

In tutt’altra direzione va un librino a me molto caro perché mi ha fatta tornare vicino ai tanti bambini che ho incontrato: Op-là è una favoletta nata come traduzione e rielaborazione delle storie ascoltate da bambino da Neville Judson, un autore inglese con cui ho collaborato. Il testo è impreziosito da immagini deliziose della pittrice Gessica Tiziani che si autodefinisce come una artista che “di solito preferisce cercare l’anima delle cose dipingendo ciò che sfugge agli sguardi, cose insignificanti che timide, dagli angoli, raccontano le loro storie.” In questo caso ha dipinto elefanti umanizzati, prorompenti e teneri, in una vasca da bagno appesa a un albero e così via.

Nel frattempo si faceva largo la passione per la storia, quella del piccolo luogo, perfino di un semplice capitello (“Campi Storti quindici case e un capitello”) e quella di tempi andati. In particolare con ricerche specifiche su fatti salienti della seconda metà dell’Ottocento. La ricerca storica: Da dove è partita? Perché l’esposizione universale di Parigi?

L’illusione di un progresso senza fine, ricco di scopi e di mete da raggiungere, ha dominato la vita dell’uomo ottocentesco soprattutto a partire dalla metà del secolo. Questa fiducia nella creatività e nei nuovi scenari è in netto contrasto con l’evoluzione che al giorno d’oggi ha trasformato la tecnica da strumento a impersonale padrone senza scopi salvifici, ma solo tendente a “funzionare”.

Mi ha affascinato tornare indietro nel tempo ed esplorare come veniva presentato lo sviluppo tecnologico nelle più grandi vetrine mondiali che erano le Esposizioni Universali. Il materiale (volumi rilegati delle principali riviste italiane, francesi e inglesi specifiche sulle Esposizioni), raccolto negli anni con passione e pazienti ricerche nei mercatini dell’antiquariato e tramite ricerche bibliografiche, è servito per la elaborazione del testo Voci dalle città effimere sull’Esposizione Universale di Londra del 1851. È ancora in attesa il resto della documentazione riferita alle altre più grandi Esposizioni Universali. Non ho finora trovato il tempo per proseguire questo lavoro, però mi dispiace perché la formazione eclettica dei giornalisti del passato assicura una descrizione minuziosa e professionale in tutti gli ambiti, che permette di delineare i focus delle innovazioni tecnologiche, la vita della classe borghese e dei poveri, i pregiudizi sociali e razziali, il ruolo secondario delle donne e il clima emotivo che circondava il progresso.

Quali i percorsi di ricerca più specifici: l’acqua, il suo fluire e i modi di avvalersene per il bene delle comunità, il frumento, la produzione della farina per il sommo alimento, che da sempre è il pane. Un’impresa mastodontica, di ricerca delle fonti, di fedeltà scientifica e storica, accompagnata da rimandi alla letteratura. La mole del lavoro ha prodotto un’opera di tutto riguardo. Stampata in poche copie. Numeri unici, un vero “libro d’arte”.

“Pane e Acqua racconta il rapporto con l’acqua di una comunità della pianura veneta nella seconda metà del secolo diciannovesimo”. (Foto di Pascvii da Pixabay)

Parto proprio dall’ultima definizione che non riguarda i libri di narrativa autopubblicati tramite piccole case editrici, ma vale per i saggi: sì, si può parlare di libri d’arte nel senso originario del termine che fa riferimento al lavoro artigianale, perché la scrittura dei testi è abbinata al lavoro di impaginazione grafica e di editing con l’uso di un software professionale che ho imparato a gestire con l’aiuto di un figlio. Il grande vantaggio di questa complementarietà operativa è la possibilità di affiancare le immagini al testo relativo, però molto spesso comporta la necessità di integrare quest’ultimo per garantire la piena corrispondenza nella pagina. Un lavoro minuzioso con modifiche plurime fino al raggiungimento del risultato voluto, reso complesso dalla presenza di molte mappe antiche, di cartine topografiche, di riproduzione di particolari e di altre illustrazioni. Ecco perché si può parlare di opera d’arte, di pezzi unici alla stessa stregua di quelli dell’artigiano che segue tutto il ciclo di lavorazione (nel mio caso tranne la stampa).

La ricerca ha occupato due volumi, il primo dal sottotitolo È più facile domare gli impetuosi torrenti che le passioni umane, il secondo sottotitolato Ognuno tira acqua al suo mulino. Il tema dell’acqua è fondamentale per la conoscenza di un territorio per la sua trasversalità: Pane e Acqua racconta il rapporto con l’acqua di una comunità della pianura veneta nella seconda metà del secolo diciannovesimo: acqua che scorre placida nel fiume ma che improvvisamente dilaga ovunque, acqua che nutre i campi, ma che talvolta vi trasporta le ghiaie a impietrire i terreni, acqua pulita che sgorga dalle fonti e dai pozzi ma anche acqua inquinata che causa malattie, acqua per l’igiene pubblica e per le fognature, acqua che stimola la tecnica a incanalarla e a sfruttarla, acqua che muove i mulini e quindi che dà il pane. Lo studio, basato sull’archivio comunale e su uno privato, su studi di idraulica ottocenteschi e più moderni, oltre che su giornali dell’epoca, si estende prevalentemente dalla seconda metà del 1800 al primo decennio del 1900.

È una storia comune a tutti i paesi, analizzata in questo caso sia attraverso studi di settore sia per mezzo delle voci dei protagonisti leoniceni: gli amministratori comunali da una parte e il popolo dall’altra, interpreti di quello che si potrebbe definire il diario di una città. Parlare dell’acqua significa in sintesi raccontare tutta la vita di una comunità e delineare un fenotipo di quel territorio estendibile a altre zone con analoghe caratteristiche ambientali e sociali.

Nel secondo volume viene descritta la storia dei mulini, e quindi anche del pane, evidenziando il notevole potere dei padroni di tali opifici, per usare un termine ottocentesco, dei signori che ingaggiavano battaglie di carte per assicurarsi la rosta più alta e quindi maggiore disponibilità di acqua al proprio servizio. Era sempre un problema di acque.

“Parlare dell’acqua significa in sintesi raccontare tutta la vita di una comunità”. (Foto di NakNakNak da Pixabay)

Per inciso, va detto che durante la consultazione nell’archivio comunale durata quattro anni erano stati raccolti documenti su molti temi, perciò alla fine del lavoro sulle acque è nata l’idea di una collana denominata L’Ottocento leoniceno che raccogliesse altri aspetti della vita quotidiana. C’era l’imbarazzo della scelta e alla fine è prevalsa la curiosità sull’arte salutare della farmacia che è stata esplorata nel volume Pillole e amor nascosto in riferimento al connubio tra medicamenti e erbe medicinali. Il titolo è allusivo all’aquilegia atrata dei pascoli montani dalle proprietà antisettiche e calmanti, conosciuta con lo strano nome di amor nascosto in relazione a una leggenda. Storia quindi delle farmacie locali, della farmacopea asburgica e dei regolamenti dopo l’unità d’Italia, dell’evoluzione verso una farmacia comunale, ma anche dell’orto botanico di Padova diretto per lunghi anni dal leoniceno Pontedera. Emerge anche il ruolo culturale della farmacia luogo di incontro di studiosi, politici e talvolta anche di cospiratori; risaltano pure l’esperienza pratica degli erboristi, la competenza specialistica dei farmacisti e le premesse per il graduale passaggio verso l’industria farmaceutica. Altri viaggi ottocenteschi giustificati dal materiale raccolto presso l’archivio comunale potrebbero delineare società, medicina, scuola, agricoltura, ecc. Una sfida che richiede tempo e buona volontà…

Quali riconoscimenti ottenuti?

Pane e acqua, l’opera completa poi suddivisa in due volumi, è stata inserita nella BEIC, Biblioteca Europea di Informazione e Cultura, grazie alla valorizzazione da parte di due esperti e autori di numerosi testi e manuali: l’ingegnere Mario Di Fidio, esperto di difesa ambientale impegnato nella pubblica amministrazione e in particolare presso la Regione Lombardia, e l’ingegner Claudio Gandolfi, Professore ordinario di Idraulica Agraria e Direttore del Dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’Università di Milano.

Questa biblioteca digitale con sede fisica a Milano “ è uno spazio virtuale, ovvero un archivio digitale innovativo a livello europeo e internazionale, costituito tramite accordi e scambi con le principali biblioteche del continente, che consente l’accesso a un vasto complesso delle grandi opere e dei maggiori autori della cultura umanistica e scientifica europea dall’antichità sino al presente, digitalizzate dalla BEIC in full text e con funzioni di ricerca avanzata rese possibili dal ricorso a innovative tecniche di metadatazione e digitalizzazione.

L’ultimo lavoro: romanzo storico, una sintesi tra scrittura da romanzo e approfondimento della Storia. Un lavoro che sposta il baricentro, sia geografico, che storico, tra Europa e Brasile, concentrandosi sulle migrazioni e sulle comunità meticce formatesi in America latina, tra popolazioni amazzoniche, discendenti di tratta di africani, europei in cerca di lavoro. Vincitori e vinti la cui esistenza ha a che fare con i grandi flussi partiti dall’Italia. Ed ecco quindi l’epopea uscita nel 2020: “Partirono di notte. (oltre … alèm).

Il romanzo è nato e cresciuto sfogliando le riproduzioni dei quadri di Candido Portinari su alcuni siti web. Se guardi un’opera d’arte, basta una sola occhiata per emozionarti e restare intrappolato nella sua magia e questo è successo per me anche con i quadri di Candido Portinari, ritenuto dai suoi conterranei il più grande artista brasiliano del Novecento. Le suggestioni pittoriche hanno acceso la prima scintilla di interesse per il Brasile lussureggiante, onirico, selvaggio, terra di incroci tra popoli e tradizioni. Sono poi servite lunghe esplorazioni nella letteratura, storia e cultura per contestualizzare il romanzo Partirono di notte, ambientato negli anni Trenta e centrato sull’amicizia di sei giovani che da una piantagione di caffè guardano oltre. Andare via, superare i limiti era stata l’aspirazione anche delle famiglie di alcuni dei protagonisti, tra cui quella del pittore, emigrata dal Veneto alla fine dell’Ottocento affrontando il lungo viaggio e il “dispatrio” che disancora e distrugge le radici, ma che crea una dimensione mobile di confronto e di contatto tra poli culturali, linguistici e geografici diversi, come spiega Luigi Meneghello nel suo libro autobiografico intitolato appunto “Il dispatrio”. I frequenti contatti con il figlio del pittore, il prof. Joao Portinari, hanno dato ulteriori spinte e rassicurazioni.

Aníbal Machado e Cândido Portinari (al centro) nel 1940. A lui dedica il volume “Partirono di notte” la scrittrice Maria Giovanna Bertoldi Portinari.

“Oltre…além” e “Partirono di notte” sono in estrema sintesi le chiavi del romanzo dove sono dominanti i viaggi, tanti viaggi ma, in fin dei conti, un unico viaggio verso una propria “Itaca”, forse irraggiungibile ma importante perché offre molte occasioni di scoprire sè stessi e di imparare durante il lungo cammino per terra, per mare e soprattutto lungo l’immenso Rio delle Amazzoni.

Poche copie, numero riservato. Il perché di questa scelta.

Sono state riprodotte in cartaceo solo delle copie di prova dei saggi narrati come gratificazione personale alla stessa maniera in cui, per fare un esempio concreto, si indossava (in passato!!) un maglione fatto con le proprie mani. O come fa un musicista che si mette al pianoforte a suonare e cantare il pezzo appena composto. Si sperava in un coinvolgimento esterno che finora non si è presentato. Resta la convinzione che si tratti di opere dignitose che prima o dopo dovranno trovare un loro spazio, pur se va tenuto presente il detto di Terenziano Mauro “Habent sua fata libelli”.

In conclusione: In che modo si sono verificati i primi riscontri con i lettori? Quali situazioni ‘culturali’ sono attive nelle biblioteche di paesi di provincia veneta? Quali problematiche rimangono vive a stimolare l’impegno di tipo sociale e pedagogico?

La prima reazione delle persone alle quali sono stati presentati i saggi-narrati è stata di plauso per la vastità della ricerca ma di distanziamento supponendo una pesantezza dei libri che non è reale sia per il modo agile di trattare i temi sia per la impostazione stessa con un riassunto all’inizio di ogni capitolo, con fasce laterali che ospitano i titoli dei paragrafi e le note contrassegnate da un glifo che si ritrova nel testo stesso. Inoltre qualcuno avanza l’idea che si tratti di testi fruibili solo a livello locale, mentre a giudizio mio e del coautore Giovanni Portinari, che ha curato la parte scientifica non rientrante nelle mie competenze, questa ricerca spazia oltre gli stretti confini e può essere considerata un modello esemplificativo di molti altri analoghi territori.

Per quanto riguarda la funzione delle biblioteche venete, si nota che la lettura non è trascurata per esempio nel territorio vicentino, infatti le oltre cento biblioteche sono riunite in una grande rete attiva con quasi 450.000 iscritti, circa 800 prestiti giornalieri e una cinquantina di gruppi di lettura; sono inoltre disponibili on line i cataloghi generali e speciali relativi a fondi antichi della Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza. Prima della pandemia fervevano gli incontri e le iniziative per tutte le età e notevole era il fermento culturale che poi ha dovuto trasferirsi sul web, raggiungendo però prevalentemente le persone più sensibili agli stimoli culturali telematici. Sul piano pedagogico va segnalata una collaborazione con le scuole soprattutto primarie, però il ruolo formativo non può essere delegato solo alla scuola e alla biblioteca e chi governa un territorio dovrebbe avere un occhio più attento, anche se selettivo in base alla qualità, a tutte le risorse culturali spontanee che permettono di costituire quel substrato culturale diffuso che fa crescere parallelamente singoli e comunità.

Micaela Bertoldi